La scoperta della lettura: storie di vita
Vi racconto il mio amore per i libri...
- Ricordi quando hai imparato a leggere?
A leggere e a scrivere mi ha insegnato mia madre. Era la seconda metà degli anni Sessanta, avevo quattro anni e lei nello spaccio del paese comprò per me un quadernino che, quando non usavo, tenevamo riposto nell’unica credenza di casa, a sinistra dietro i piatti. Scrivevo con la matita nera e amavo riempire i quadretti con le lettere in corsivo, a come Agnese, c come Caterina, che era il nome di mia sorella più piccola di me. Tutte minuscole; le maiuscole le avrei imparate più tardi. Quegli esercizi fatti in anticipo mi permisero, una volta andata a scuola, di imparare velocemente a leggere lo stampatello e quindi i libri.
- Quali sono stati i primi libri che hai letto? Li avevi in casa?
Amavo il mio libro di lettura di prima elementare, con tanti disegni, storie e poesie. Quello è stato il primo libro tutto mio. Per insegnarci a leggere bene, la maestra Edda ci assegnava un brano come compito per casa e ci chiedeva di ripeterlo per dieci volte. Lo scriveva proprio a margine della pagina, per sbieco: leggere 10 volte. La mattina, appena entrati in classe, dopo le preghiere, leggevamo il brano a voce alta, un pezzo ciascuno, ed era un piacere ascoltarci tra noi. In quegli anni a casa nostra c’era un libro di cucito e ricamo di mia nonna, i libri di preghiera sempre suoi e nessun altro libro. Molti anni dopo scoprii nel cassetto di un vecchio comò il testo di quinta elementare di mio padre con le immagini colorate solo di bianco, rosso e verde. Avevamo, però, tanti giornali della Coldiretti e i bollettini delle suore di Santa Rita di Cascia, dove andavamo in pellegrinaggio almeno una volta l’anno. A chi lasciava un’offerta veniva attivato l’abbonamento. Saltavo molte pagine ma divoravo le brevi storie delle grazie ricevute. Ce n’erano almeno una decina in ogni numero, provenienti da ogni parte del mondo, malattie o incidenti superati per intercessione della Santa. Queste furono le mie prime letture.
- Hai mai ricevuto libri in regalo?
Sì, diversi. Il primo libro lo ebbi in regalo in prima elementare e me lo donò una zia di Roma. Lo conservo ancora. Il titolo era: “L’erba della luna nuova” di AMZ editrice con le illustrazioni di Greta. In realtà me ne portò tre o quattro, tra cui “La lampada di Aladino”. Li lessi e rilessi tante volte, anche di sera prima di addormentarmi, alla luce fioca dei lampioni che entrava dalla finestra. Mi immergevo nelle storie e provavo tante emozioni. A casa, vista la passione, mi regalarono le avventure di “Pinocchio”, con la copertina rosa e cartonata. Mi piacque, era pieno di fantasia. La fata turchina, Mastro Ciliegia, Geppetto, Pinocchio così sfortunato che solo alla fine riesce a guadagnarsi l’indipendenza. Poi arrivarono “Cuore” e “Senza famiglia”, commoventi da farmi emozionare, erano usati ma andavano bene lo stesso. Mi innamorai del piccolo scrivano fiorentino e avrei voluto anch’io essere così eroica e di sostegno alla mia famiglia. La condizione dei bambini europei in quei romanzi era davvero diversa da oggi. Si lottava con la povertà, con le guerre e i fanciulli erano dei piccoli adulti in attesa di crescere in altezza. Quei romanzi raccontavano una condizione sociale piena di sofferenze e di bisogno di riscatto che avevo ascoltato anche dai racconti vivi degli anziani del paese: i nostri nonni all’uscita della scuola dovevano correre a pascolare gli animali e a poco più di dieci anni partivano per le transumanze o andavano a servizio in città. La responsabilità iniziava molto presto. Ogni libro mi emancipava e mi differenziava dai miei compagni che non avevano lo stesso interesse. Almeno non nelle mie quantità. La maestra per la prima Comunione ci regalò “Riccardo cuor di leone”; le nostre vicine, invece, fazzoletti e scatole di cioccolatini. I libri erano il passaporto per la vita, aprivano il limite dei nostri orizzonti, stimolavano la fantasia e la capacità di farci comunicare con gli altri.
- A scuola avevate dei libri? Potevano essere presi in prestito per leggerli a casa?
A scuola saccheggiai la piccola biblioteca, prendevo in prestito due libri a settimana. Ero diventata una lettrice instancabile. “Bisogna leggere – sentenziava Elda, una mia parente che era stata a servizio da una professoressa – se non si legge non si impara a scrivere”. Aveva ragione. Per di più per noi leggere era l’unico modo per imparare a scrivere bene le parole, a conoscerne la corretta grafia. In paese parlavano tutti il dialetto. In quel periodo a scuola c’erano anche tanti piccoli libricini con le favole più conosciute. Erano destinate ai bambini di prima e seconda ma io, nonostante fossi in terza, li lessi tutti a ricreazione. Avevano tante immagini colorate, bei disegni, ma quello che preferivo erano le parole.
- Quando hai letto il primo libro per adulti?
In quarta elementare accadde qualcosa di insolito: a mio zio arrivò per posta un omaggio dalla Selezione del Reader’s Digest. Era un libro con quattro romanzi compendiati. C’era anche un giallo di Agata Christie: “Tre topolini ciechi”. Ecco la mia iniziazione ai libri “per adulti”. Raccontai la cosa a scuola e quando la maestra si stupì delle mie letture, considerate da lei non proprio adatte alla mia età, mia madre si spaventò e per un po’ mi nascose il libro. Ricordo anche un falò di libri fatto sul sagrato della chiesa dal parroco. Soffrivo a vedere le fiamme divorare quelle pagine scritte che nessuno avrebbe più potuto leggere. Mia madre riuscì a sottrarne qualcuno e io acciuffai un volume sulla riproduzione umana, che faceva parte di una trilogia. Rispetto alle mie amiche che non riuscivano a spiegarsi come potesse avvenire la nascita dei bambini, io scoprii scientificamente il processo grazie al libro: i gameti, l’embrione, il feto. Non capivo cosa fosse la copulazione, ma pazienza. In casa non avevamo un vocabolario e internet non c’era.
- Che importanza avevano le illustrazioni? Immaginavi tu i personaggi o avevi bisogno di vederli disegnati?
Le illustrazioni avevano per me un significato estetico, mi piaceva guardarle, ma spesso non coincidevano con quanto avevo immaginato. Le parole, invece, mi aiutavano a costruire un identikit tutto mio dei personaggi, le scene in cui si muovevano. Questo succede anche quando da un racconto viene tratto un film: non sempre ciò che abbiamo letto corrisponde alla trasposizione cinematografica. Poi ci abituiamo. Quando uscì il film su “Il nome della rosa” di Umberto Eco, prima finii il libro e poi andai al cinema.
- Quale personaggio letterario avresti voluto essere?
Ancora ragazzina, mi sarei principalmente lasciata ispirare da due personaggi: da Jo March di “Piccole Donne” e dal sindaco Valjean de “I Miserabili”, buono e caritatevole verso i poveri e ingiustamente condannato. Mi piacevano anche le novelle del Decamerone con Buffalmacco e Calandrino e le risposte furbe del contadino Bertoldo. Piangevo lacrimoni per le varie orfanelle e i principini momentaneamente usurpati del titolo.
- Hai mai avuto qualcuno che ti raccontava favole, che tu hai ascoltato leggere per te?
A casa sentivo raccontare spesso la favola di Cappuccetto rosso, che veniva citata per metterci in guardia dagli sconosciuti; invece una vicina di casa, Leonilde, quando al crepuscolo le portavo il secchio con l’acqua, mi faceva sedere vicino al fuoco e mi raccontava una favola che le chiedevo di ripetere ogni tanto. Non ricordo più nulla di quel narrare, solo la sensazione di piacevole paura che mi afferrava e mi faceva restare muta. Di racconti orali nel paese ne ho sempre sentiti tanti. Storie di anime, di streghe, di bambini sfortunati, di avventure buffe capitate agli abitanti. Riguardo alle letture, alle Medie non c’era più libro disponibile a scuola che non avessi letto e a quell’epoca sperimentai di nuovo l’ascolto. La signorina Anna, una nostra assistente, in attesa dell’arrivo dello scuolabus ci leggeva David Copperfield e altri romanzi. Aveva una bella voce, teneva un ritmo giusto che appassionava. La biblioteca era ricca di letteratura per ragazzi.
- Quali altre letture ricordi di quegli anni, libri o riviste?
Due zie mi regalarono “Storie ed enigmi del mondo animale” e “Madalè”, un romanzo adolescenziale che tanti anni dopo si fradiciò in garage e che, per fortuna, riuscii da grande a ricomperare su Ebay. La mia biblioteca casalinga si andava componendo. In seconda media, dopo aver scritto una leggenda del tutto inventata, decisi che da grande avrei creato un personaggio e ne avrei raccontato la storia, facendolo diventare famoso. Mi compiacevo della mia fantasia. Il personaggio non l’ho ancora forgiato. Chissà? Potrei ancora essere in tempo. Compravo, quando era possibile, il Corriere della Sera per leggere i pezzi di Enzo Biagi, ma mi piacevano anche Topolino e le avventure di Diabolik che il papà carabiniere portava alla mia amica Maria Grazia da Roma. La sera, a volte, leggevo il vocabolario, che intanto mi avevano comperato, per imparare parole nuove.
- Crescendo hai continuato a coltivare la lettura?
Le letture di svago diminuirono al Liceo: c’era da studiare e in collegio nel pomeriggio si leggevano i fotoromanzi. Solo negli ultimi due anni ricominciai a sfogliare qualche classico. Iniziai a scrivere. Non solo temi molto lunghi, ma pagine di diario e tante poesie. All’Università si ricominciò come non mai. Divorai tutti i libri di mia cugina e, grazie al Club degli editori che faceva sconti e offerte, molti saggi, romanzi italiani e stranieri. Lessi di tutto, lessi molto. Verso i venticinque anni nell’armadio della mia camera c’erano oltre mille libri. Alcuni anche ricevuti in regalo.
- Quindi i libri sono una grande passione?
La lettura è un grande piacere, un relax assoluto. Ora ho la casa piena di libri, tanti e tutti considerati come persone. Ce ne sono su un’intera parete nella mia camera, riposti in doppia fila. Si trovano in ogni stanza. Non me ne separo. Mi piace vederli, averli con me. Non ho mai scritto con una penna su un libro, lo considero quasi dissacrante. Solo una volta su un’antologia, in seconda media, scrissi di getto una poesia dedicata alla mia sorellina, che pensarono avessi copiato da qualche parte e che, invece, era tutta mia. In realtà era facile scribacchiare qualcosa dopo aver letto per giorni le liriche dei grandi poeti e averne assimilato la metrica. Leggere per me è un appagamento, un continuo imparare, un aprirsi alle esperienze e alle emozioni degli altri per conoscere meglio le nostre. Un modo per avere a disposizione tante persone con cui scambiare punti di vista. Leggere è anche un atto di intimità, di apertura verso noi stessi, di formazione. Non riusciremmo mai a conoscere tutto quanto c’è e c’è stato al mondo se non fosse per i libri. Lo avevano capito bene i monaci benedettini che nei loro scriptorum salvarono dall’oblio tanti manoscritti che abbiamo potuto leggere per apprendere la filosofia, le arti, la scienza, la poesia.
- Hai conosciuto direttamente qualche scrittore?
Ho conosciuto alcuni autori dei libri che sono nei miei scaffali: Andrea Camilleri, per esempio, a casa sua a Roma. Quasi incredibile sapere che come autore ebbe difficoltà iniziali a far pubblicare i suoi romanzi. Nonostante fosse un funzionario della RAI, quindi non uno sconosciuto, gli editori non erano convinti del suo miscuglio di italiano e lingua di Vigata e rifiutarono le proposte. Fu Elvira Sellerio a dargli fiducia. Camilleri amava Pirandello, la sua intelligenza e ironia. Sugli scaffali di casa ci sono anche alcuni libretti scritti da me. Scrivere è un’altra passione, coltivata prima con la collaborazione a un quotidiano e da qualche tempo con la pubblicazione di questo blog e di qualche libro sulle tradizioni locali. La lettura e la scrittura si compenetrano; finito un libro sale il desiderio di scrivere, di giocare con le parole raccontando le storie. Leggere è anche apprendere questa forma di artigianato.
- Pensi sia importante invitare i bambini a leggere già in famiglia?
Ai miei figli ho proposto libri da subito. In realtà è stata una cosa spontanea. Leggevo anche mentre allattavo. Quando prendevo libri per me, ne sceglievo qualcuno anche per loro, soprattutto in biblioteca. Li leggevamo insieme, fin quando non hanno continuato a farlo da soli. Andavamo al mare e sulle bancarelle compravamo dei piccoli libretti cartonati più disegnati che scritti, validi strumenti per prendere confidenza con l’oggetto. La sera nel lettino leggevo loro le favole dei Grimm, di Andersen, di Calvino, di Guido Gozzano, di Leonardo, di Esopo, favole umbre della nostra regione. Qualcuna l’abbiamo recitata come “Pierino Pierone” di Calvino. Sapevano che quei rettangoli un po’ spessi di carta contenevano avventure di bambini, di animali protagonisti di incantesimi, atti di coraggio e di astuzia. Ai bambini piace la normalità, ma anche il mistero e un pizzico di paura protettiva. Anche a scuola hanno avuto insegnanti che li invitavano alla lettura. Spesso ho conosciuto titoli grazie a loro. Oggi sono adulti e, qualche volta, ci scambiamo libri e opinioni. Un bel modo di essere genitori e figli.